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L’Intelligence c’è, e si vede

L’arte di scrutare l’invisibile è antica quanto l’umanità: si chiama Intelligence. Ma cosa significa “fare Intelligence” nel XXI secolo? E, soprattutto, come possiamo garantire che questa arte antica serva la democrazia nell’era digitale? Mario Caligiuri, in una riflessione apparsa su Il Riformista esplora l’evoluzione dei Servizi – dal dopoguerra all’IA – concentrandosi sulla diplomazia segreta che ha portato, nei giorni scorsi, al più grande scambio di spie dai tempi della guerra fredda.

A Siena, sul pavimento del Duomo, giace un tesoro di saggezza arcaica: la Sibilla ellespontica di Neroccio di Bartolomeo de’ Landi.

Questa profetessa pagana, incastonata nel marmo di un tempio cristiano, è capolavoro e metafora. E ci ricorda che l’arte di scrutare l’invisibile è antica quanto l’umanità: si chiama Intelligence, sofisticata rete di raccolta e analisi di informazioni, essenziale per la sicurezza nazionale e la competizione globale.

Ma cosa significa “fare Intelligence” nel XXI secolo?

E, soprattutto, come possiamo garantire che questa arte primitiva serva la democrazia nell’era digitale?

Mario Caligiuri, in una riflessione apparsa su Il Riformista, esplora l’evoluzione dei Servizi – dal dopoguerra all’IA – concentrandosi sulla diplomazia segreta che ha portato, nei giorni scorsi, al più grande scambio di spie dai tempi della guerra fredda.

Caligiuri evidenzia come la globalizzazione abbia accresciuto l’importanza dell’Intelligence. L’intensificazione degli scambi economico-commerciali e degli investimenti su scala mondiale ha, infatti, aumentato la complessità delle dinamiche internazionali, richiedendo un’informazione rapida e accurata per orientarsi in un panorama geopolitico sempre più interconnesso e volatile.

Al termine della Seconda guerra mondiale, la guerra fredda ha visto un’escalation delle attività di spionaggio tra superpotenze. “Le spie – chiarisce Caligiuri – non raccoglievano solo informazioni militari ma anche segreti politici, industriali e personali” così come documentano i film Le vite degli altri e Il ponte delle spie. Questo periodo ha cementato il ruolo dell’intelligence quale strumento di potere e influenza, un ruolo che non ha perso rilevanza neanche dopo la fine ufficiale della guerra fredda.

Caligiuri, peraltro, parte dall’idea che la guerra fredda non sia mai veramente terminata, ma abbia semplicemente mutato forma. Una prospettiva accreditata da recenti saggi, come quelli del ricercatore Domenico Vecchiarino o dell’ambasciatore Sergio Vento, entrambi pubblicati da Rubbettino. Le dinamiche di lungo termine nelle relazioni internazionali suggeriscono che, nonostante i cambiamenti di superficie, le strutture profonde del conflitto persistono, adattandosi alle nuove realtà tecnologiche ed economiche. Questa continuità storica si fonde con la metamorfosi del mondo contemporaneo, dove l’ibridazione tra uomo e macchina pone nuove sfide all‘intelligence, considerata una delle forme più sofisticate di intelligenza umana. Questo contrasta con le limitazioni dell’intelligenza artificiale, priva di corporeità e contesto umano. L’intelligence non solo protegge gli interessi nazionali ma anche le potenzialità cognitive umane, come dimostrato da innovatori come Steve Jobs.

Caligiuri non si sottrae dal mettere in luce criticità e paradossi dell’intelligence moderna.

Egli sottolinea la tendenza dei governi a utilizzare i Servizi “come un grande ombrello per coprire responsabilità e inadeguatezze” ma anche l’impossibilità per questi ultimi “di prevedere ogni evento, così come dimostrato dall’attacco di Hamas a Israele”. Punti che sollevano questioni importanti sia sulle responsabilità sia sui limiti dell’Intelligence nel contesto politico contemporaneo.

Robert Baer, intervistato da Repubblica, aggiunge una dimesione attuale alla riflessione di Caligiuri.

L’ex super agente della CIA – operativo dal 1976 al 1997, case officer in Iraq, Sudan, Libano, Asia centrale, Marocco e in altre aree calde del pianeta, insignito della Career Intelligence Medal “per aver ripetutamente corso rischi personali, scegliendo gli obiettivi più difficili, al servizio del Paese” – scandaglia lo scambio dei 26 prigionieri tra Stati Uniti e Russia, rivelatosi ben più avvincente delle rivelazioni del New York Times, del Financial Times e della Bbc.

Baer – oggi analista tv e autore, tra gli altri, del memoir Dormire con il diavolo. Come Washington ha venduto l’anima per il petrolio dell’Arabia Saudita (Piemme) da cui è stato liberamente tratto il film Syriana – lo descrive come “il più grande scambio di prigionieri dai tempi delle guerra fredda, ottenuto grazie a un lavoro diplomatico enorme, svolto in gran segretezza”, temendo peraltro possa incoraggiare ulteriori arresti arbitrari di stranieri da parte di “Stati pirata”.

La narrazione si sposta poi su un piano più filosofico, richiamando le riflessioni di Yuval Noah Harari sul rischio di una società divisa tra chi controlla l’intelligenza artificiale e chi ne è controllato. In questo contesto, la democrazia è presentata non solo come la meno imperfetta forma di governo, ma come tutela essenziale contro le disparità e il disagio crescenti nell’era dell’IA.

L’lntelligence si trova oggi al crocevia di mondi, culture e informazioni. La sua funzione, dunque, non è dissimile da quella della Sibilla ellespontica: scrutare oltre il velo del presente per rivelare verità nascoste, unendo la comprensione del passato alla visione del futuro. Poiché la sfida non è più solo mantenere l’informazione nascosta, ma gestire la disinformazione e le operazioni di influenza. E la tensione tra necessità di condivisione informativa e compartimentazione della sicurezza richiede modelli operativi e concettuali sempre più performanti.

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