L’Intelligence israeliana? Una Cassandra: sa, vede, presagisce. E resta inascoltata.
L’analisi di Antonio Teti (SOCINT Abruzzo) a venti giorni dall’attacco condotto da Hamas
La tensione nella Striscia di Gaza sale di ora in ora. A venti giorni dall’attacco condotto da Hamas, le forze di Israele hanno lanciato una massiccia offensiva terrestre: difficile prevedere gli sviluppi.
Secondo Antonio Teti – docente all’Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara e alla Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia, esperto di Cyber Security, IT Governance, Big Data e Previsione del crimine – “la comprensione della crisi richiede un’analisi attenta delle dinamiche che hanno portato a questa escalation”. A partire dalle scelte compiute dalle Agenzie di intelligence israeliane, accusate di aver ecceduto – nelle operazioni di spionaggio e controspionaggio – nell’uso delle tecnologie.
“Non condivido questa ipotesi” – puntualizza il professore -. Mossad, Shin Bet e Aman sono addestrate a condurre azioni con dispositivi e metodi integrati, sperimentati in decenni di attività sul campo. I servizi israeliani non hanno affatto abbandonato la Humint. Anzi, il loro modello prevede che il lavoro delle Agenzie sia supportato da un’intelligence collettiva, assimilata e condotta dal popolo. Ogni cittadino rappresenta, potenzialmente, una fonte informativa orientata alla salvaguardia del Sistema Paese e alla tutela degli interessi nazionali. C’è una motivazione psicologica dietro a tutto questo: secoli di soprusi e angherie che hanno spinto i figli d’Israele a proteggersi”.
Come legge, la débâcle israeliana di fronte all’inferno scatenato dalle Brigate Izz el-Deen al-Qassam, braccio armato di Hamas?
“Probabilmente il governo di Binyamin Netanyahu ha sottostimato il problema di Gaza e degli insediamenti israeliani. Un atteggiamento che ricorda errori tristemente commessi in passato“.
L’intelligence, dunque, sapeva. E non c’è stato bisogno d metterla a tacere: è bastato ignorarla.
“Identica supponenza aveva portato Tel Aviv, nel 1973, a ritenersi imbattibile e a minimizzare le agitazioni di Egitto e Siria, con esiti disastrosi. Il conflitto tra Israele e Palestina ha radici antiche e dolorose” .
Quali le ragioni del rinfocolarsi delle violenze e quali gli strumenti per comprendere uno scenario così drammatico e in rapida evoluzione?
“A quelli già citati, aggiungerei senz’altro il ruolo tattico dell’Iran. Sebbene Hamas non si pieghi alle imposizioni di Teheran, condivide il conseguimento di un obiettivo: interrompere il processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e i leader dei paesi arabi”.
Un conflitto prolungato potrebbe trasformarsi in un incubo…
“Indubbiamente, sia perché interesserebbe aree densamente popolate sia perché l’approvvigionamento di armi, da parte degli Stati Uniti, alimenterebbe nel mondo arabo sentimenti di odio. L’ipotesi di un conflitto su più fronti, inoltre, metterebbe Israele sotto pressione e, nel lungo periodo, si rivelerebbe insostenibile”.
L’allargamento delle ostilità rappresenta già una minaccia?
“La comunità internazionale è in allerta, preoccupata per le possibili ripercussioni di questa escalation. Le tensioni tra le fazioni coinvolte potrebbero trascinare altre nazioni e generare una crisi su scala globale. In questa delicata situazione Stati Uniti, Giordania, Egitto, Emirati Arabi e Qatar sono intenzionati a trovare una soluzione. Il vero problema è Hamas: questa cellula terroristica deve essere in qualche modo azzerata, altrimenti rappresenterà sempre una spina nel fianco sul piano della normalizzazione dei rapporti”.
Il governo israeliano saprà trovare una strategia per cambiare il corso della storia?
“Solo il tempo dirà quali sviluppi e quali ripercussioni avrà questa crisi, ma è innegabile che la sua portata e complessità impongano un’attenzione costante sia da parte del governo israeliano sia da parte della comunità internazionale. Ogni azione militare dovrà essere finalizzata al raggiungimento di uno scopo politico. Alla fine di questo conflitto le condizioni di sicurezza di Israele dovranno essere migliori di quelle che l’hanno preceduto. Vale a dire che occorrerà affrontare, in maniera seria e risoluta, la questione dei “due popoli, due Stati”. La situazione dovrà essere cambiata e sta anche al governo israeliano farlo. Non solo annientando Hamas, ma creando le condizioni affinché il “dopo Hamas” non generi mostri peggiori. Bisogna intraprendere un cammino di pace che recepisca irrevocabilmente uno Stato per gli israeliani/ebrei e uno Stato per i palestinesi/cristiani e musulmani“.